una strada

Ci sono cose, diceva uno che dello sguardo e di come posarlo se ne intendeva, che se vuoi capirle devi guardarle da vicino – e neanche così è detto che funzioni – guardarle, prenderti del tempo, e se hai fortuna dirle a qualcuno, nella speranza che queste cose, altrimenti smorte, prendano colore, ma questo viaggio vale se non ti metti in testa di aver già capito tutto prima, è un’idea che ad averla fa passar la voglia di osservare

bene allora si va, questa strada di sicuro non corri il rischio di averla capita, per anni hai cercato proprio di non vederla, da casa al lavoro, attraverso una terra sospesa che potrebbe essere di nessuno e niente ha da invidiare ai capannoni truci del Nordest, una via discontinua, zoppa, senza connessioni che non siano asfalto cemento semafori, così almeno ti è sempre parsa dal finestrino mentre guidavi, le poche volte che hai deciso di prestarle attenzione, sei piuttosto brava a convincerti che a non vederle le cose brutte si dissolvano, e chissà cos’è questa novità di fartela a piedi, stamattina, se una sorta di tributo o, finalmente, un armistizio

un carro dell’immondizia appena chiuso il portone, di quelli che in macchina ti fanno scalpitare quando vai di fretta e si piazzano in mezzo, lenti larghi verdi, un fastidio esagerato quello che ti prende, lo sai che senza non si può fare, stavolta però ti rallegri di essere a piedi, è così facile passar via, intanto una cascata solida ti assorda, vetro che si sfascia, lasciato indietro, persino i bicchieri tremavano nella credenza quando, la notte, la talpa scavava, il cantiere della metro saranno ormai cinque anni che chiude la visuale a te e a tutti quanti nel quartiere, di guardia al cancello c’è il solito ragazzo nero, statuario, i dread ordinati, ricetrasmittente in mano a darsi un tono, lo vedresti meglio davanti a un locale a mezzanotte, dove è probabile che pure lavori, sta qui tutto il giorno, senza una sedia, niente, prova ad attaccar bottone se c’è chi ha voglia di fermarsi, non molti, ma qualcuno che sbircia dentro non manca mai

avanti diritto, un ospedale, ma anche una via, Macedonio Melloni, dove diciott’anni fa, in pochi passi, sei arrivata con quella gran pancia, ti rassicurava non dover dipendere da qualcuno – debolezza suprema – metti di esser sola al momento buono, non lo eri da sola ma lo stesso, fulminata da una doglia mentre attraversavi le strisce pedonali, non riuscivi più a muoverti, a dimostrazione che la strada per partorire non è mai sgombera di imprevisti, anche quando è così corta, l’hai visto cambiare colore questo ospedale, visitato tanto spesso per un periodo in fondo breve e poi mai più, dove ti sei sentita dire che le cose andavano bene, quasi sempre, qualche volta no

primo semaforo da attraversare, offerte specialissime quelle ben in mostra sul lato di viale Piceno di un grigio meno sporco, una sfumatura davvero irrilevante, in vetrina fioccano descrizioni di pulizie per auto trattate come neonati, con prodotti speciali per ogni piccola parte, il cruscotto, i sedili, le portiere, il tetto interno, la tappezzeria a terra, il baule, per liberarle da batteri acari virus muffe cattivi odori, macchie di calcare e macchie minerali, con l’aggiunta finale di una delicata ceratura protettiva, anche il sabato e la domenica, non avendo di meglio da fare, quanti uffici nei seminterrati, computer accesi e faldoni con scartoffie, saranno fatture, tante fatture certo, questa è Milano bellezza, dalla macchina non potevi notare gli stanzoni – come fai a chiamarli open space – che costringono alla luce elettrica tutto il giorno, le sole bocche di lupo spalancate sulla strada, come tanti uomini-che-amavano-le-donne, a spiare dal basso le gambe di chi passa sul marciapiede

ora c’è un supermercato al posto del vecchio Blockbuster, spazi immutati, davanti la corsia delle novità, vicino alla cassa patatine e coca-cola, le seconde visioni erano in fondo, al posto dei surgelati, corsie larghe abbastanza per traversarle con il passeggino, caricare nella sacca dei pannolini i film che continuavi a perdere al cinema, qualche multa beccata per esser svenuta di sonno davanti alla tv e aver mancato di restituirli, domani ce la faccio a finirlo, teniamolo ancora un giorno, e ancora sorridi al ricordo di quando hai dato un appuntamento alla Robi, allora ci vediamo davanti al Blockbuster! e lei che non l’aveva mai sentito nominare ma non voleva far quella che chiede, ti ha aspettato un’ora nel mezzo di un’aiuola spartitraffico, di tutto quel che c’era intorno le sembrava potesse essere quella un blocca-qualcosa

il ristorantino greco bianco e azzurro, da cartolina, è adatto all’incrocio con il viale Ventidue Marzo dove potresti essere in piena Atene, nel caos di piazza Omònoia mica sull’Acropoli, per più di un anno è rimasto chiuso come quasi tutto intorno e non apre più, tutto ma non la libreria di quartiere, piccolissima, sopravvive chissà come, eri così fiera di aver trovato lì un lavoretto per tua nipote che ci teneva, il tuo regalo di Natale per lei, un mese d’estate tra i libri, doveva essere una cosa bella invece alla fine si è trovata malissimo, non guardi dentro per non incrociare lo sguardo del libraio, oltre il semaforo il parco con l’erba, che le bambine ben distinguevano dal parco senz’erba quando potevano scegliere dove giocare, il parco della Palazzina Liberty alle otto del mattino è ancora abitato da chi ha dormito su una panchina o nell’erba, più tardi ci si incontra un’impronunciabile compagnia di jogger, homeless e dog-sitter

sarà poi il caso di attraversarlo a quest’ora, alla fine no, lo bordeggi, non è per paura ti dici, è che il gioco di oggi sta nel seguire la strada vera, quella che di solito fai in macchina, altrimenti non vale, calpesti piccoli frutti gialli rotolati sul marciapiede dal limitare dell’erba, forse si mangiano forse no, misti a reperti di notti brave o solitarie che spuntano da dietro i cespugli, le tre vetrine del negozio di mobili in legno sono diventate cinque, si vede che le cose van bene, ci hai comperato un costosissimo letto a castello nel periodo in cui ti pareva servisse in casa un segno di discontinuità – cercavi qualcosa di meno drastico che raderla al suolo – e ci sei tornata anni dopo per un materasso, però no, costava troppo, forse più del letto a castello, per questa rinuncia la proprietaria tedesca ti ha sgridato, mica scherzava, vergogna vergogna mettere a rischio la vita delle tue figlie con materassi di cattiva qualità, e fu così che mai più mettesti piede nel negozio del senso di colpa

leggera curva a destra, l’asfalto rifatto da poco in via Friuli, non più quei lastroni prefabbricati e poggiati uno accanto all’altro, che quando li percorrevi all’inizio degli anni duemila, con una vespa che aveva la tua età, rischiavi di cadere a ogni giuntura, mai viaggiato tranquilla in vespa a Milano, tra rotaie del tram e pavé, giù per questa via che finché ci sono case ci sono graffiti, e tentativi di coprirli coperti da altri graffiti, se alzi lo sguardo trovi tutti quei terrazzini in fila, arredati con due sedie e un tavolino, così pieni da non muoversi, per un aperitivo immobile, affacciati sul traffico, modello Cynar, cinque uomini sul marciapiede, tutti con Air Clima sulla maglia, chiacchierano e si fanno una sigaretta prima di cominciare il lavoro, ti cedono il passo in silenzio, ti guardi con i loro occhi e ti trovi parecchio strana, con un taccuino e una penna in mano che poi, impugnare una moleskine al posto del cellulare, alla fine, hai solo messo un simbolo al posto di un altro, hanno pure la stessa forma, tirare dritto e far finta di nulla

Officine Fotografiche si chiamavano, un posto dove andavi felice la sera, a scuola, come ti piace fare ogni autunno, con questa voglia di andare a lezione, di sedere in un’aula, di essere o avere una classe, voglia che non passa, e questa scuola abbastanza lontana da darti il gusto di coltivare una cosa tutta tua, abbastanza vicina da non farti venir voglia di mollare già dopo due volte, in genere con il cambio dell’ora legale, sarà un riflesso condizionato dal buio, ma resta a casa cosa esci a fare, ti sembra di sentir la tiritera di tua madre, mentre sbirci sul campanello per vedere chi ci sta adesso, che le Officine hanno chiuso, una cascina in città, paradosso che si chiami Cuccagna, quando di tutte hai stampata negli occhi la volta con Greta, e nelle orecchie la risposta che l’ha annientata, attutirle il colpo non sapevi come, si era capito tutto e troppo, non hai trovato di meglio che invitarla a pranzo, vi hanno apparecchiato anche se era tardi e, pur stordita, ha mangiato di gusto, assaggiato dal tuo piatto, scambiato qualche battuta assurda coi vicini di tavolo, un’ultima possibilità di fingere speranza, resistere ancora qualche giornata

avanti pure, fino alla rotonda, snodo informe, irrespirabile, passavi di qui durante le lunghe chiusure e, forse per assecondare la nube di tristezza che avvolgeva un po’ tutto, ascoltavi il racconto di Vita e Destino dal vocione suadente di un bravo attore, piazzale Lodi è ormai per te, a ogni passaggio, là dove una ragazza e un bambino sono entrati nella camera a gas senza capire cosa e perché, una lunga soggettiva che non si può immaginare né accettare, per sempre fissata nell’infelice rotatoria vicino allo scalo ferroviario, un assedio di Stalingrado che non voleva finire più, quaranta ore a spostarti in macchina con il silenzio intorno, il lasciapassare sempre nello scomparto del cruscotto, mai nessuno che ti abbia fermata, quasi ci speravi

una campana gialla per la raccolta degli abiti usati fronteggia l’oro Prada della Haunted House, una volta ci hai visto un rom a testa in giù dentro una di quelle campane, con la sua donna che lo teneva amorevolmente per i piedi, tu che cercavi di spiegare è pericoloso – allora erano raccoglitori con un’apertura grande e a cader dentro potevi rimanerci bloccato – ma la donna ti ha fatto un segno che non potevi fraintendere, di andartene, che non stessi a rompere, e allora via, fermarsi al semaforo ansiogeno, angolo via Ripamonti, che se da brava ti metti nella corsia giusta tutti ti passano avanti, il problema è che, per come sei tu, metterti in quella sbagliata ma più veloce e tagliare la strada all’ultimo a quelli dietro ti fa sentire una merda, e dunque aspetti, ma non oggi che cammini

Pretty Woman musiche di Bryan Adams è al teatro Nazionale, adesso lo sai, che Milano is design già lo sapevi, Pane Pasta Granaglie perché qualcuno dice ancora granaglie? e tanti tanti pet store, anche gli animali sono baditi come bambini a Milano, mica solo le automobili, poi Campagnamica biomercato hipster, e.co.working spazio dal nome insostenibile, Fave non un locale per toscani, non arrivi più se ti fermi ogni pochi passi a leggere le scritte come quando avevi sei anni, pennarello azzurro e calligrafia da gallina in cammino, gli spazi a schiera al parco Ravizza sono pronti per scriverci, arrugginiti, con brandelli di chissà che elezione, e allora In questo spazio vale tutto. Anche i fenicotteri a molle è il solito copy che vuol farsi notare, segue Fuoco alle galere graffito nero su giallo a suo modo creativo, seguono persone con cani chiuse dentro recinti, accanto a persone che hanno passato la notte per terra e si tengono su la testa con la mano, seguono due uomini distesi in mezzo a uno stormo di piccioni, e a chiudere un altro genio che forse non ha capito bene dove vive, da sperare che non sapesse dove sarebbe finito il suo mantra, Non costruiamo edifici. Costruiamo servizi intorno alle persone, avanti pure, una sedia di plastica verde, rotta, un cerchione d’auto a bordo marciapiede, ti stai avvicinando al territorio dei coccodrilli

ci hai scritto un racconto su questi coccodrilli, una scena che vedevi ogni mattina, li osservavi per pochi secondi, attraverso il finestrino il tempo di un semaforo, li chiamavi coccodrilli ma erano persone in fila alla mensa dei poveri, il raccontino te lo avevano anche pubblicato con una foto sul giornale della Zona 5 – è li che sta Il pane quotidiano – dimenticando il tuo nome e anche un pezzo del finale perché non c’era più spazio, finiva la colonna, ma pazienza, anche la foto l’avevi scattata tu, a un vero coccodrillo lungo il Mississippi nel Bayou, e ti aveva poi scritto un tipo che insegna in una scuola di scrittura abbastanza famosa per dirti che l’aveva letto, gli era piaciuto, a parte una cosa che ti consigliava di togliere, hai pensato che volesse farti seguire uno dei suoi corsi, comunque non ci sei mai tornata su, questa è la prima volta che ci ripensi, al racconto, perché le persone in coda le vedi ogni santa volta che ci passi, e son sempre di più, ora tutte mascherate, e la coda ancora più lunga, e non solo per tenere le distanze, occupano la strada i coccodrilli, nel territorio dell’elegante Bocconi che è ormai un intero isolato e, dal marciapiede dove stagnano in coda, ora l’acqua la vedono davvero ma non la possono toccare, è una striscia lunga e stretta e molto azzurra di acqua limpidissima, con certe lucine che corrono fulminee sul fondo lungo una fibra ottica, questa piscina elegante non c’era ancora ai tempi di Coccodrilli, il racconto, ora se possibile la scena è persino più assurda, una volta di più che restano in secca, intanto un uomo improvvisa un mercatino di abiti usati sul marciapiede, espone solo una scarpa per ogni paio che vende, così non possono rubargliele e scappar via, si conoscono un po’ tutti, si salutano in lingue diverse, appoggiati a due manone che si passano una pagnotta

i muri a colori della scuola di via Bazzi hanno un tono così deciso che ti vien da crederci, qui però il traffico uccide, tagli per uno stradello in mezzo ai condomìni e ci trovi un uomo e la sua tenda da campeggio piantata in un’aiuola, e accanto alla tenda due biciclette a gambe all’aria, forse le sta riparando, fatti gli affari tuoi e tira dritto, ti sorpassa un ragazzo in bici, vedi la schiena della bimba abbracciata a lui sul sellino di dietro, che dice Papà, è festa ogni giorno! e davvero non ci sta male un po’ di ottimismo al parco dell’Accoglienza, e anche una signora che profuma di ammorbidente ci sta bene, odora come la magnolia grande al centro, annusi con piacere pure il tipo palestrato appena uscito dalla doccia, poi lasci i giardinetti e cerchi di capire dove passa il tram, che in piazza Agrippa prosegue diritto, e pensi a quella volta che ti sei distratta e gli sei andata dietro, ti sei trovata in mezzo all’erba con le ruote giuste giuste sui binari, la macchina che ci pattinava sopra leggera, più o meno a metà strada meritata pausa ristoratrice al Gran Caffè, ce ne son tanti di bar come questo a Milano, li gestiscono persone cinesi, in genere sono padre e figlia, sorella e fratello, una coppia mista comunque, e capita spesso che dei due lei parla benissimo italiano e lui quasi niente

portano da bere a uno dei tavolini di metallo tondo dove siede un trio che si somiglia, saranno nonna madre nipote, in quello accanto un signore dai baffi ben curati legge un libro di cui cerchi di capire il titolo, intanto bevi il cappuccino, paghi e riparti, mentre metti via il resto cade una moneta, un signore la raccoglie e te la porge, Non semini! scherza, da quando ci vivi pensi che a Milano non vedono l’ora di attaccar bottone, sembrano scorbutici ma non è vero, le persone a volte, tante volte, sono sole e basta

centrale elettrica con statue, strana visione all’angolo con via Valla, statue troppo bianche che sembrano veneri e apolli in vendita per poco lungo certe provinciali, stanno nel cortile o giardino dove ci sono i tralicci e gli accumulatori, questa parola, accumulatori, ti stupisce, se la conosci è solo per quell’esame con Pezzi, il tuo professore di impianti elettrici, l’hai rivisto invecchiato anni dopo quando l’hai aiutato a rifare il suo libro, il tuo solo trenta e lode, e a proposito di accumuli, addossato al muro grigio della centrale un materasso matrimoniale e uno zainetto pieno, ora quello che l’ha lasciato torna, pensi, lontano a sinistra si vede la sagoma nera del palazzo di via Antonini, quello andato a fuoco pochi giorni fa, quando abitavi a Ferrara non capitava mai che in televisione parlassero di fatti gravi o comunque importanti accaduti vicino a casa, e ti torna in mente Anna che, come te, da Ferrara era venuta a stare a Milano per seguire il suo uomo, cammini cammini e c’è sempre altra città oltre la città, diceva quando voleva fare un complimento a Milano, e si vedeva che Umberto era contento e gli sembrava di aver fatto qualcosa di buono a portarla qui, lui che aveva una passione vera per questi edifici bigi, e ti ha insegnato a vederci la storia delle persone che li hanno pensati, costruiti, abitati, da quanto tempo non c’è più

Moira Orfei, e Nando era il figlio o il marito, mica te lo ti ricordi, forse lui c’è ancora, lo si intravede sui poster strappati, sarebbero piaciuti a Ghirri, anche il Motel Autosole 2 non è male, lascia pensare che ci sarà pure un numero 1, un numero 3, un’intera catena di Motel Autosole, poi un’insegna scritta proprio così, con tutti questi puntini, Cesare….. Sentirsi a casa, sei troppo pigra per attraversare la strada e andare a vedere di cosa si tratta, ma la cerchi in rete intanto che cammini, naturalmente la trovi, è un ristorante salentino e vedi che il proprietario – fa Cesare di cognome – risponde a tutti i commenti che riceve, buoni e meno buoni, risponde proprio a tutti, Grazie, punto, saranno un centinaio, e lui cento volte ringrazia con il punto fermo in fondo che, ti hanno spiegato le tue giovani, non si mette a meno che tu non stia litigando con chi ti scrive, perché se metti un punto chi riceve è come se leggesse PUNTO!

e che avrà mai fatto Vincenzo Isimbardi, di mestiere numismatico, per meritarsi una strada, poi – come si dice – da qui i leoni, a piazzale Abbiategrasso comincia la parte più dura, o così te la prefiguri, ti avvii sulla ciclabile semideserta che minaccia di terminare da un momento all’altro, il tram numero 15 se la ciclabile finisce sul serio è il tuo salvagente, puoi salirci quando vuoi, se ti stanchi, se non ti senti al sicuro, vai a una fermata e lo aspetti, questo tram che parte da piazza del Duomo e passa attraverso almeno tre classi sociali, forse quattro, dal centro-centro alla periferia più dura, e invece scopri che la ciclabile resiste più a lungo del previsto, dal nastro di traffico che entra in città ti protegge una siepe, strano, al mattino così presto le macchine scorrono verso fuori, per questo in genere ci impieghi tanto, e già arrivi fino a Isola Anita, è da provare questa trattoria, lo dici ogni sabato quando finisci il giro al mercato poi non ci vai mai, un mercato di un quartiere che non è il tuo, che frequenti per affetto, i banchi sono ospiti per un giorno nel cortile di un vivaio, piante che fanno spazio ai formaggi, fiori tra le uova, alberi di natale e frutta dalla Calabria, al formaggiaio lasci un pacco di soldi ogni volta, ma ci sa fare e se li merita, te li fa assaggiare tutti

ancora un manifesto tra le case popolari, dice Blossoming of Trust, ti domandi cosa pensano di fare questi qui, perché scrivono cose in inglese a cui si fatica a dare un senso, Amaranta club, adesso si chiama così quel locale rotondo dove andavi con il moroso di quando eri appena venuta a stare in città, volonterosi e disperati ballerini da sala, tutti e due legnosetti che eravate, polke, mazurke, tanghi, con quell’insegnante polacco che sgridava solo te, Lascialo guidare, almeno qui! strillava, e tu ci provavi ma dopo un po’ prendevi di nuovo il sopravvento, e una volta qui all’Amaranta avete partecipato a una garetta di ballo per dilettanti, con il vostro bel numero sulla schiena, e hai perso il tacco della scarpa, ma avete continuato a roteare sulla pista perché fermarsi era peggio, voleva dire far sbagliare gli altri, vi avrebbero maledetto, ma uno non dovrebbe ballare per rilassarsi, pensavi, e finalmente un giudice pietoso ha detto il vostro numero e messo fine allo strazio

proprio qui ai confini con l’Esselunga di via dei Missaglia comincia il parco agricolo Sud, un limbo tra costruito e coltivato, in faccia alle torri bianche di Gratosoglio, alle case Aler rosse e gialle, un altro cartello pubblicitario, stavolta del Comune di Milano, senz’altro più sobrio dei fenicotteri con le molle, Scegli questo spazio per la tua pubblicità, di qua i condomini con le grandi terrazze verdi dove abitava felice Daniela, senti ancora la sua risata un po’ rauca per le troppe sigarette, di là l’orrido World Car Center, una specie di Guantanamo che su Maps è solo un grande rettangolo grigio, cittadella e trionfo delle auto nuove e usate, giusto dove inizia la via Selvanesco, una via buona per compierci delitti, sarà il suono del nome che fa tanto Scerbanenco, sarà la nebbia solida di quando la percorrevi in macchina, di sera

Kandinsky è la scuola del Gratosoglio, di là dal semaforo che attraversi per andare fin sotto le torri, hai ancora la possibilità di rimandare a un’altra volta, cominci a sentire la stanchezza, un po’ hai fifa, un altro po’ ti vergogni di scuriosare in giro, poi intravedi la scritta e allora hai voglia di vederla, la scuola del Bronx come la chiamano, a te che sei di passaggio sembra un presidio bianco e vitale, incorporato tra le case, la tua amica Susanna invece, che ci entrava ogni mattina, ti ha tolto ogni idea romantica su questa scuola e i suoi studenti, ce ne sono nel piazzale davanti all’ingresso, forse aspettano gli esami di riparazione, una freccia dice di là biblioteca, la cercherai la prossima volta, Il nutromanno odia i cretini, scritta da film dell’orrore di categoria zeta, schivi i rifiuti buttati per strada, eppure queste torri biancosporco da lontano sembravano peggio, ai piani bassi qualcuno coltiva verandine fiorite, persino una specie di pergola, dalla strada non si vedevano, senz’altro meno peggio del Grattacielo, un agglomerato grigio di venti piani per torre sopra la stazione dei treni, dove hai abitato da ragazza, nella casa che era stata della nonna, il Grattacielo si mimetizzava così bene, un po’ il colore naturale del cemento, un po’ la nebbia d’inverno della Bassa che se lo mangiava, che la tua amica greca, arrivata dritta dalla sua isola a Ferrara per studiare medicina, era scesa alla stazione e a vedere tutto quel grigio era scoppiata a piangere

Spero sia un abbaglio tutta questa oscurità, scritta ai piedi delle torri, un po’ paracula, molto fotografata, però vista da vicino, tra le facciate screpolate, fa più effetto, devi girare intorno a un traliccio per leggerla bene, tralicci dell’alta o forse media tensione, se li sai ancora distinguere è sempre per i rimasugli dell’esame e del professor Pezzi, almeno due vite fa, quando tutte le biforcazioni che avevi davanti potevano ancora essere esplorate, così vicini alle facciate che se per caso grandina o tira vento chissà dove cascano questi tralicci, e certi cartelli con teschio e tibie incrociate che danno il buongiorno a chi apre le finestre, ti accorgi che le insegne che non indicano rivendite o direzioni di marcia sono tutte in abbandono, resti ancora un po’ nei dintorni, vorresti scambiare due parole con qualcuno ma quei pochi che ci sono si fanno, com’è giusto, gli affari loro

si legge bene Milano Sud Antifa, bello grande, lungo il deposito degli autobus, perché sia ben chiaro a tutti, e ti par di riconoscere un palazzone dove hanno girato un film, il regista voleva vedere se Romeo e Giulietta parla ancora ai ragazzi, in questo quartiere dove sono quasi tutti musulmani, non ricordi a che conclusione arrivava, se ci arrivava, ma gli occhi delle ragazze non ti sembravano certo da giuliette, forse anche lui voleva solo raccontare immagini a qualcuno per respirare un po’ meglio

attraversi a un semaforo circondato di fiori a mazzi, qualcuno ha avuto un incidente qui, hai annotato una parola che a guardarci più tardi non ti riesce più di riconoscere, e sì che ci avevi messo persino un punto esclamativo, piante carnivore, a bordo strada la vegetazione cresce deforme, vengono su certe bacche purulente, e l’erba, una brutta erba, si sta riprendendo un po’ alla volta il marciapiede, come la foresta tropicale di Angkor Wat, solo molto più feroce, c’è persino una roggia, nessuno ti leva dalla testa che i canali intorno a Milano sono radioattivi e ospitano pesci mutanti, ogni cinque o sei metri i rovi che corrono sulla tua sinistra si interrompono, e compaiono certe porticine di legno che si aprono su non si sa che, qualcosa brucia proprio dietro una delle porticine, stanno arrivando i pompieri, sensazione che di là dai rovi e dalle porticine ci sia una vita misteriosa, ai limiti del legale

ecco il cavalcavia, ci corri sopra in macchina di solito e ne sei certa il marciapiede là non c’è, ma giusto in tempo alla base prima di salire si stacca uno stradello di mattoncini rossi, pulito, regolare, altoatesino, che bordeggia il centro commerciale e passa sotto la rampa, probabile che l’abbiano costruito quelli del fiordaliso di cemento, per favorire una passeggiata bucolica tra i negozi, da qui solo un chilometro e mezzo ancora, le gambe vanno avanti per conto loro

un’altra rotonda, al centro una brutta skyline di Milano in metallo infuocato, all’imbocco di via Curiel comincia a far davvero caldo, mancano solo novecento metri, in questo triangolo tra la tangenziale, il cavalcavia e un’altra strada di gran traffico han pensato bene di piazzare un campetto da calcio, e già che c’erano una pista di go-kart, appena più sensata in questo non luogo, due operai stanno fotografando i sostegni del cavalcavia, ci pensi tutte le mattine che potrebbe crollare, figurati come se la filano la manutenzione qui, ecco, questa melma sotto il ponticello che stai attraversando dicono sia stato il Lambro

doppio muro di cinta, doppio cancello, manca il ponte levatoio, chi son questi che si sono fatti un castelletto nel posto più sfigato del mondo, sbirci per vedere dentro, un gruppo di case che da sempre immagini lussuose, da sempre poi, da questi sette anni, o sono otto, che ti tocca passare di qui, si favoleggia che sia un covo di malavitosi, reucci di Rozzangeles, di fronte alla fermata del 15, martoriata di scritte e dal fuoco

ti fermi, nello spiazzo davanti al cancello che stai per aprire c’è un carrello della spesa ribaltato e dentro un televisore con lo schermo spaccato, a lato il cartone di un imballaggio, il disegno dice che dentro ci stava un passeggino, attraversi queste ultime macerie, passi il tesserino, il cancello si muove e questa è già una notizia, entri, è finita, tredici chilometri di strada detestata ancor prima di sapere dove portasse di preciso, in un posto dove non volevi andare, brutta e basta, brutta e cattiva, tempo sprecato, aria puzzolente, povera strada che hai accusato persino dei chili presi da quando hai dovuto abbandonare la bici, tredici chilometri, meno di tre ore inclusi gli appunti, neanche male

fili dritta in bagno per sciacquare di dosso la polvere e un po’ di altre cose, sulle mani macchie di inchiostro azzurro, il pennarello non è sopravvissuto all’impresa, un bel respiro e via, questa intimità che porti con te fa parte del tuo paesaggio, non è poi così assurdo affidare ai piedi la possibilità di accoglierla, e un otto di settembre andava bene per snocciolarne ogni passo.

Lascia un commento